Carlo di Borbone (Madrid, 20 gennaio 1716 – Madrid, 14 dicembre 1788)
Il giorno 10 maggio del 1734, nel pomeriggio, Carlo di Borbone, vinta la fiacca resistenza che gli austriaci ed i partigiani di Carlo VI avevano tentato qua e là nel reame, entrava trionfalmente in Napoli per porta Capuana e fra l’entusiasmo del popolo si recava in Duomo a fare atto di devozione a S. Gennaro il cui sangue, poco innanzi, aveva compiuto l’atteso miracolo. Così dopo una lunga e dolorosa parentesi di oltre due secoli, durante i quali i dominatori spagnoli prima, gli austriaci poi, avevano vessato in ogni modo le popolazioni dell’Italia meridionale, inaridito le fonti della sua ricchezza, abbassato al grado di provincia quello che era stato uno dei più floridi e potenti regni della penisola e per qualche tempo d’Europa, Napoli ritornava ad essere capitale di uno Stato indipendente, retto da un monarca giovanissimo ricco di buone qualità ed ottime intenzioni.
Carlo, nato nel 1716 da Filippo V re di Spagna e dalla sua seconda moglie, Elisabetta Farnese, non poteva aspirare al trono perchè c’era un erede, figlio della prima moglie Maria Luisa Gabriella di Savoia, il principe Ferdinando. Non sopportando il pensiero che il figlio Carlo dovesse vivere all’ombra del fratellastro, la regina Elisabetta, grazie alla sua intelligenza, scaltrezza ed abilità manipolatrice su tutte le corti europee, ottenne per il figlio prima la successione nei ducati farnesiani e nel Granducato di Toscana, poi, approfittando della rivalità sorta fra la Francia e l’Austria a proposito della candidatura di Stanislao Leszczynski al trono polacco, ottenne anche il Regno di Napoli.
Carlo di Borbone, dunque, quando cinse “la più bella corona d’Italia” (frase scritta in una lettera dalla madre) aveva diciotto anni. Di statura media, aveva il corpo asciutto e muscoloso, gli occhi chiari, i lineamenti del viso assai pronunciati. La sua educazione non era stata delle migliori, giacché il precettore conte di Santisteban, invece di prepararlo alle cure dello Stato, pare preferisse coltivargli la naturale inclinazione per la caccia, la pesca e la pittura. Semplice di tratti ed affabile, di carattere piuttosto timido, venne diversamente giudicato da chi lo avvicinò. Ma i suoi biografi, anche i meno benevoli, sono concordi nel riconoscere che in lui la somma dei pregi morali era maggiore e più sicura di quella dei difetti e che il suo ingegno naturale suppliva alle manchevolezze di una educazione imperfetta.
Era giunto in Italia poco più che quindicenne come erede di Gian-Gastone de’ Medici e di Antonio Farnese ed aveva passato serenamente due anni fra Firenze e Parma, nonostante le ire dell’imperatore d’Austria che non si era piegato a concedergli l’investitura dei due ducati. La guerra scatenatasi fra gli stati d’Europa nel finire del 1733 dava a lui un Regno più vasto ed un compito più difficile.
Il capostipite dei Borbone di Napoli sarà ricordato come protettore delle scienze e delle arti e più ancora come ricostruttore coraggioso delle fortune della sua nuova patria.
Egli aveva sangue italiano nelle vene (i maligni sussurravano che questo non provenisse soltanto dalla madre) e fra i suoi consiglieri più ascoltati era Bernardo Tanucci, un arguto e colto avvocato di Stia nel Casentino, già professore all’Università di Pisa e Ministro della Giustizia nel nuovo Regno. Il Tanucci, tempra di toscano della grande età, aborriva le astrattezze e disdegnava le parole ed i bei discorsi, Fervido ammiratore del Machiavelli, instancabile nel lavoro, incorruttibile e disinteressato, nutrito com’era di antica sapienza e geloso delle glorie italiane, certamente cooperò a dar concretezza ai piani grandiosi che maturavano nella mente del giovane Re e ad armonizzarli coi bisogni e con le possibilità dello Stato.
Carlo di Borbone nel 1738 ordinò che fossero ripresi gli scavi di Ercolano con sistemi più prudenti di quelli usati dal principe d’Elbeuf, il fortunato scopritore della città sepolta, e col proposito di raccogliere gli oggetti rinvenuti: più tardi fece cominciare quelli di Pompei e la messe fu così ricca ed abbondante da consigliargli la formazione di un museo, che presto poté gareggiare coi più importanti d’Europa, e la fondazione della Accademia Ercolanese per lo studio del materiale archeologico venuto alla luce.
Altro merito del giovane re fu la conservazione delle ricche raccolte d’arte della dinastia Farnese, che egli portò da Parma a Napoli insieme coi volumi del fondo farnesiano, i quali formarono il primo nucleo della biblioteca reale costituita nel 1734, ed inoltre l’acquisto di parecchi capolavori della galleria medicea, trasportati a Vienna per essere venduti al pubblico incanto. Tali capolavori dei Farnese furono donati dai Borbone alla città di Napoli, ed oggi sono divisi tra il Museo di Capodimonte ed il Museo Archeologico, e contengono le più straordinarie statue d’epoca greca e romana, ed i più bei dipinti e opere dal Medioevo al Barocco.
A lui si dovette l’impulso dato all’edilizia cittadina, per cui i centri maggiori del reame, con la capitale alla testa, in breve si trasformarono e si arricchirono di nuovi edifici importanti, in un gioioso risveglio di speranze, di volontà e di energie.
La prima opera alla quale egli mise mano non appena giunse a Napoli, fu l’ingrandimento e l’assetto del palazzo reale che non poteva essere né comoda né degna sede della Corte perché mancava persino dei mobili più necessari, tanto era l’abbandono in cui l’avevano lasciato i viceré.
Nel 1737 volle dotare la capitale di un grande teatro e ne affidò la costruzione all’architetto Medrano ed all’impresario Carasale che con meravigliosa rapidità lo compirono in otto mesi. Fu questo il Teatro di S. Carlo salito presto in alta fama ed al quale lavorarono in seguito Giovanni Maria Bibiena e Ferdinando Fuga. Nell’estate del 1738, poco dopo il suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia, diede incarico pure al Medrano di costruirgli a Capodimonte una grande villa « la più rilevante in Europa », i cui lavori avanzarono lentamente nonostante la chiamata da Roma dell’architetto Antonio Canevari per la revisione del progetto ed i consigli necessari alla sua esecuzione. Allo stesso Canevari affidava il disegno e la costruzione della villa di Portici, notevole soprattutto per la nobile fronte verso il mare e per le ampie terrazze che si distendono ai lati della scalinata monumentale.
Intanto ogni giorno più si acuivano le rivalità fra gli stati d’Europa, e Carlo, prevedendo di non poter rimanere estraneo alla guerra imminente, dovette preparare i mezzi per la difesa del Regno. Riorganizzò l’esercito, fondò accademie militari, restaurò e munì le fortezze presso i confini; cosicché quando, per le pressioni della Corte di Madrid e per la minaccia del Lobkowitz già in marcia col suo esercito verso il reame, egli fu costretto ad abbandonare la neutralità fino allora osservata nella lotta per la successione di Carlo VI, poté muovere contro gli austriaci alla testa delle sue truppe, fermarli presso Velletri e sconfiggerli in una battaglia che segnò le sorti della guerra in Italia, Con la battaglia di Velletri, combattuta nell’agosto del 1744, cadde ogni speranza a Maria Teresa di riacquistare all’impero il Mezzogiorno d’Italia, la monarchia borbonica si consolidò e Carlo ebbe a vantare una vittoria che, se fu esageratamente esaltata dai suoi fedelissimi, gli accrebbe in ogni modo l’ammirazione dei sudditi e diede al popolo la sensazione di un rinato prestigio.
Camillo Guerra “La Vittoria di Carlo di Borbone alla Battaglia di Velletri” 1815-1840 – Visibile nell’Anticamera per i Non Titolati (detta Sala di Alessandro)
L’audace disegno di costruire una nuova città della Corte, dei ministeri e delle alte istituzioni di cultura e di giustizia, lontana dal mare senza essere troppo discosta da Napoli, da vago desiderio divenne fermo proponimento nel Re dopo che egli dovette sottostare alle imposizioni della flotta inglese comandata dal commodoro Marteen, presentatasi improvvisamente in un mattino dell’agosto del 1742 di fronte alla capitale, per ottenere la neutralità del governo delle Due Sicilie nella guerra scoppiata dopo la morte di Carlo VI. Il sito che meglio si prestava a questo scopo era un vasto terreno pianeggiante ai piedi dei monti Tifatini, di proprietà dei conti Acquaviva di Caserta (avversari irriducibili dei Borbone) già occupato fino dal 1735 perché, ricco di boschi e di cacciagione, offriva al giovane monarca la possibilità di dedicarsi al suo passatempo favorito.
Scelto il luogo conveniva trovare l’architetto capace di ideare un nobile edificio per la sede ordinaria della famiglia reale e che secondo i desideri del Re doveva anche contenere una università per « le arti liberali, per le scienze intellettuali e per le scienze fisiche », una biblioteca pubblica, tutti i dicasteri, la magistratura, un grande teatro, un seminario ed una chiesa cattedrale. Dopo aver esitato fra il Salvi ed il Vanvitelli, Carlo diede l’incarico al secondo, e, poiché il progetto apprestatogli corrispose ai suoi desideri, egli chiese ed ottenne dal papa Benedetto XIV di assumere al suo servizio Luigi Vanvitelli, architetto di San Pietro.
Tutto il 1751 fu impiegato negli studi e nei lavori preparatori. Il 20 gennaio 1752, il re celebrò la posa della prima pietra del palazzo alla presenza del nunzio pontificio, degli ambasciatori stranieri, delle alte cariche dello Stato e di una folla innumerevole.
Progetto della Reggia visibile nella Dichiarazione dei Disegni
Ma neppure i lavori di una nuova e grandiosa reggia, nonostante venissero condotti con grande velocità, potevano calmare la passione del Re costruttore. Allo stesso tempo aveva incaricato l’architetto Ferdinando Fuga il Reale Albergo dei Poveri, un palazzo di dimensioni colossali che sebbene solo in parte finito, stupisce ancora oggi per la vastità della concezione e la severa compostezza della linea architettonica; e intanto provvedeva a ingrandire il porto rendendolo più sicuro, a costruire il fabbricato dell’ Immacolatella, a tracciare nuove strade, mentre i ricchi signori trascinati da questa foga, ampliavano ed abbellivano i loro palazzi, la pietà dei cittadini innalzava nuove chiese, e sulla riviera di levante, fra Portici e Torre del Greco, sorgevano a diecina quelle magnifiche ville che seppero mirabilmente fondersi col paesaggio in una perfetta armonia di linee, di proporzione, di colore.
La capitale del reame si avviava a divenire una delle più belle città d’Europa; la vita vi pulsava intensamente; grandi speranze sorgevano dai nuovi traffici che si tentava d’allacciare con l’Oriente per mezzo di celeri servizi di comunicazioni quindicinali fra Napoli e Costantinopoli e grazie ai trattati di commercio stipulati con la Turchia e la Tripolitania.
Nel 1759, Carlo di Borbone, a quarantatré anni, abdicò a favore del figlio Ferdinando per succedere sul trono di Spagna, dopo che il fratellastro era morto senza eredi. Nel lasciare Napoli raccomandò a tutti i Ministri di terminare le fabbriche da lui cominciate e anche lontano volle essere sempre informato dal fido Tanucci dell’andamento dei lavori che a lui interessavano quasi quanto l’educazione del giovane Re. Re Carlo III di Borbone, prima di trasferirsi in Spagna, regalò alla città di Napoli la Collezione Farnese.
L’accusa mossa a Carlo di Borbone di essere stato uno sperperatore del pubblico denaro ci sembra ingiusta. Egli aveva ereditato dall’avo Luigi XIV il gusto per le costruzioni fastose e dai Farnese l’amore per l’arte. A Capodimonte fondò, nel 1743, la fabbrica della ceramica, salita presto in grande fama tanto da gareggiare con le migliori di Francia e di Sassonia; creò l’Accademia del Disegno, dove insegnarono i migliori artisti napoletani e anche alcuni degli artisti forestieri venuti a Napoli nella seconda metà del secolo; impiantò un Opificio delle Pietre Dure ed una fabbrica degli arazzi, impiegando i maestri che lo avevano seguito da Firenze; protesse le manifatture di seta nella Calabria; incoraggiò l’industria dei cristalli, che però ebbe poca fortuna. I documenti dell’Archivio di Caserta ci parlano anche di una fabbrica di maioliche sorta presso quella città nel 1753 dalla quale uscirono oggetti che dovevano avere un certo pregio artistico, perché le note di pagamento ricordano servizi per dessert con statue, gigli e ornati, insalatiere, vassoi con frutta e fiori, guantiere, ecc.
Antonio Joli “Carlo III lascia la città ed abdica in favore di Ferdinando nel 1759” (Museo del Prado)
Il suo illuminato mecenatismo diede un potente impulso alle arti figurative, a quelle applicate, e specialmente all’architettura ed a lui soltanto si deve se ai migliori artisti del tempo furono affidate opere di gran livello, e se ad essi non mancarono i mezzi necessari per realizzarle.
Carlo amò sinceramente la sua patria d’elezione: quando partì non volle portare nulla con se, neppure un anello che aveva trovato negli scavi di Pompei.
Il ricordo di lui, oltre che agli scritti degli storici, è consegnato ai monumenti che volle innalzare e soprattutto a quella superba Reggia di Caserta a proposito della quale la principessa di Gonzaga scriveva verso il 1790 al marito:
« J’arrive de Caserta où j’ai promené tout la journée ma curiosité: c’est la Versailles des rois de Naples. Le palais serait digne des anciens maitres du monde. Vanvitelli qui en est l’architecte à été là le rivai de Michel Ange par la grandeur des idées et la noblesse du style ».
(«Vengo da Caserta dove giro tutto il giorno a curiosare: è la Versailles dei re di Napoli. Il palazzo sarebbe degno degli antichi padroni del mondo. Vanvitelli che ne è l’architetto è il rivale di Michelangelo per la grandezza delle idee e la nobiltà dello stile».)
Morì il 14 dicembre 1788, a Madrid in Spagna.
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