Tale Sala dipinta in bianco e senza decorazioni, era destinata ai divertimenti della corte. Oggi essa ospita il Presepe borbonico, restaurato di recente, dopo che la maggior parte dei pastori fu rubata. La tradizione presepiale napoletana si afferma con Carlo di Borbone a meta ‘700, ma soprattutto con il collezionista re Francesco I. Si racconta che la Regina Maria Cristina di Savoia, oggi beatificata, ne avesse voluto pure uno piccolo da tenere nella sua stanza.
L’usanza di allestire per Natale il presepe nella Reggia di Caserta, divenne una tradizione dell’intera Corte: esso era creato non solo dagli artisti e dagli artigiani, ma anche da tutte le dame di corte e le principesse, abilissime nel confezionare gli abiti per i pastori, ricche dame o mercanti georgiani vestiti all’orientale, con sete di San Leucio multicolori e gioielli in filigrana o coralli.
Alla realizzazione parteciparono artisti come Bottiglieri, Sanmartino (l’autore del famoso Cristo Velato della Cappella Sansevero), Mosca, Celebrano, Vassallo, Gori, i quali modellavano in terracotta le figure più importanti, mentre le altre avevano solo la testa e membra di terracotta e la struttura di fil di ferro e stoppa. Le figure erano collocate su uno “scoglio” di sughero, secondo regole rigide e nel rispetto delle scene canoniche, quali la Natività, l’Annuncio ai pastori e l’Osteria.
Per realizzare il presepe ogni anno era eseguito un progetto, come descritto nei dipinti di Salvatore Fergola visibili sulle pareti della sala. In esse è raffigurato l’ultimo presepe allestito dai sovrani, prima della conquista del Regno nel 1860. L’ultimo presepe fu allestito nel 1845, in occasione dell’inaugurazione della ferrovia Napoli-Caserta. Maria Sofia, ultima Regina del Regno, stava allestendo il presepe nel 1860, ma non fece in tempo per via dell’attacco da parte dei Savoia e la successiva caduta del Regno.
L’attuale allestimento si ispira a quell’ultimo presepe ottocentesco, che ben rappresenta la Napoli cosmopolita della fine del Settecento.
“Quando mancavano pochi giorni alla tradizionale data del 12 dicembre, le attività, nella reggia di Caserta, diventavano frenetiche: s’allestiva il presepe regale, una delle grandi passioni del Re Ferdinando. Con soffocati “jamme…jamme!” ed ansiosi “E stateve accuorte!”, il direttore del presepe incitava e sorvegliava il continuo andirivieni degli addetti che portavano centinaia di pastori, con ceste di giunco e protetti da “cannaucci”, dai loro stipi lontani fino alla grande sala ovale, al centro del lato orientale del palazzo, spesso anche teatrino domestico. Lì, i presepianti, sotto la guida di scenografi e pittori, li posizionavano: i pastori più belli e più preziosi erano posti in primo piano, poi c’erano quelli da secondo piano ed infine quelli, più piccoli ed ordinari, ‘per le lontananze’.
Finalmente arrivava il giorno dell’inaugurazione: il Re Ferdinando e la Regina Carolina, seguiti dalla corte, entravano nella sala pressoché al buio. Poi, mentre una lieve musica si diffondeva dall’alto, pian piano cominciava a far chiaro come al sorgere dell’alba, grazie ad un marchingegno che imitava le ore del giorno inventato dall’architetto Nauclerio, finché, a luce piena, il presepe appariva in tutta la sua strabiliante bellezza tra un coro di esclamazioni di gioia e di sorpresa. Subito gli sguardi vagavano avidi e veloci sui tanti personaggi ed animali che affollavano la scenografia, ma la curiosità dei più era, innanzitutto, nel riconoscere quali membri della corte fossero stati ritratti fra i pastori e, man mano che venivano individuati, era tutto un indicare, sorridere, ammiccare e sussurrare commenti, specie quando, come spesso accadeva, i riconosciuti erano personaggi potenti e superbi come il marchese Tanucci con la consorte. Anche Ferdinando e Carolina si divertivano un mondo, forse non a caso, con quelle satiriche riproduzioni dei loro cortigiani e, quando una volta il Re scoprì che perfino i suoi amatissimi levrieri erano stati riprodotti fedelmente dal bravo presese pista Vassallo, preso da incontenibile entusiasmo, non si stancava d’indicarli agli ospiti con colorite espressioni dialettali….”
Tratto da: Nando Astarita – “Caserta dei Borbone”
Questo sofisticato passatempo regale fu presto imitato dai nobili e dai ricchi borghesi che, ai più bravi artisti, chiedevano presepi che fossero il più possibile simbolo della loro ricchezza e potenza. Così, un presepe ebbe tutt’intorno grandi rose d’argento per porvi le candele e in un altro, del principe d’Ischitella, i Magi avevano abiti che scintillavano di gioielli e gli asini al seguito some piene di pietre preziose. La frenesia divenne tale che alcuni addirittura s’indebitavano o finivano in miseria pur di avere l’onore che il re visitasse il loro presepe. Infatti era diventata moda, nei giorni di Natale, che il Re e la Corte, e talvolta anche altri regnanti ed illustri visitatori stranieri, come Goethe, ammirassero quelli più rinomati e nelle case più esclusive, che poi venivano aperte anche al popolo che ne restava strabiliato.
Il risultato di tutto ciò fu un dilagare di questa passione: non c’era famiglia, per quanto umile, che non avesse il suo ‘ presebbio’ anche se minuscolo e, se mancava lo spazio, veniva messo nella “scarabattola”, una teca di legno appesa al muro. Intanto la scenografia presepiale era diventata sempre più teatrale e sempre meno religiosa. La Palestina s’era trasformata nel vicolo napoletano animato da ogni specie d’artigiano e dall’osteria con la sua “appesa”. Così che, in tutta quella tipica “ammuina” di bifolchi, pacchiane col gozzo, mangiatori di spaghetti, mendicanti, acquaiuoli, pisciavinnol’, verdummari, Magi con folto seguito ed il tutto contornato da tanti animali fra cui perfino bufale, solo grazie al nugolo di angeli che scendevano dal cielo si riusciva ad individuare la Natività in qualche anfratto dell’immenso “scoglio”. Insomma, questo presepe “cortese” non aveva più niente della misticità e sacralità di quello francescano e, giustamente, il grande collezionista Cuciniello lo definì: “una pagina dei Vangeli tradotta in dialetto napoletano”. Infatti quello che si rappresentava era uno spaccato di vita napoletana ricco di mille simbolismi religiosi e pagani, uno spettacolo neorealistico peraltro sempre aggiornato, oltre che nei costumi, anche con le novità del tempo, come i ruderi di templi greco-romani, dopo gli scavi di Pompei ed Ercolano voluti da Carlo III, oppure come la fedele riproduzione del primo elefante giunto nella capitale in occasione della ambasceria della Porta Ottomana presso il Regno di Napoli.
Tratto da: Nando Astarita – “Caserta dei Borbone”
La tradizione del presepe napoletano fu opportunamente incoraggiata dai Borbone, certo non per religiosità, ma perché ben consapevoli di quanto fosse politicamente vantaggioso che il popolo si riconoscesse ‘interprete principale’ di un fenomeno amato dal Re e dalla nobiltà. Poi, la rivoluzione del 1799 e l’arrivo dei francesi interruppero la tradizione dei presepi reali e buona parte dei pastori andò dispersa e trafugata, forse a beneficio di vari musei nel mondo. Ma, al loro ritorno nel 1816, i Borbone, dopo aver acquistato centinaia di nuovi pastori, ripresero a far allestire il presepe anche se, col nuovo secolo, esso comincerà a perdere vitalità, tanto da rimanere per sempre ‘settecentesco’. In realtà, il più bel presepe allestito a Caserta fu quello del 1844, con quasi tutti i pastori delle raccolte reali e con tre cortei di Magi, un espediente per dare dinamicità temporale alla scena e per ampliare moltissimo uno dei gruppi più scenografici. Era enorme e fu quindi esposto nella galleria della ‘Racchetta’ col soffitto ridipinto d’azzurro per l’occasione, e per la sua bellezza fu ritratto in quattro tele dal pittore di corte Fergola ed ammirato, fino al consueto 2 febbraio, giorno della Candelora, da una gran folla giunta a Caserta anche grazie alla recente (1843) ferrovia che la collegava con Napoli.
Tratto da: Nando Astarita – “Caserta dei Borbone”
Tratto da: Nando Astarita – “Caserta dei Borbone”
I pastori subirono un’evoluzione: ormai scolpirli era diventato troppo lento e costoso per la loro crescente richiesta e quindi – dopo essere passati dalle prime grosse sagome in legno dipinto (1025) alle sculture in legno policromo a grandezza naturale (1200), e poi a statue abbigliate, ma sempre più piccole (1500/1600) – si arrivò ad utilizzare stampi di latta che consentivano una rapida ed economica riproducibilità di pastori in creta. Invece, per quelli di maggior pregio, la genialità napoletana inventò manichini in filo di ferro ricoperto di stoppa, a cui venivano applicate testine, mani e piedi in terracotta, così che potevano assumere posizioni diverse e più realistiche. Inoltre, la cura maniacale per il dettaglio, portò gli artisti a specializzarsi: chi modellava testine, come il famoso Sammartino fondatore di una scuola in San Gregorio Armeno, chi mani e piedi, chi animali e chi, come Ardia, detto il “Farinariello”, cestini di frutta ed ortaggi, mentre maestri ceramisti di Vietri e di Cerreto modellavano minuscoli orcioli e piatti. Insomma, era una vera e propria arte, quella dei presepianti, non a caso già nel XV secolo chiamati” figuram sculptores”, malgrado il parere di Vanvitelli che, in privato, definiva il presepe” una ragazzata cui i napoletani, goffi per il resto, si dedicano con efficace abilità”.
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