Per arte classica si intende comunemente quella greca dei secoli V e IV a.C., che ebbe nella città di Atene il suo centro propulsore. Il termine “classico’’, invece, è un termine di origine romana del settore fiscale, e deriva da cives classicus , ovvero cittadino romano che pagava le tasse, per distinguerlo dai popoli delle province o dei paesi conquistati che non avevano gli stessi diritti, quindi era un cittadino “scelto”. Con questo significato di “scelto’’ il termine fu più tardi usato sia per indicare le opere che non potevano mancare in una biblioteca, che per designare quegli artisti così eccellenti da non poter essere superati, ma solo imitati. Di conseguenza se certi autori possono essere solo imitati, in quanto insuperabili, ne deriva che tutte le epoche seguenti sarebbero di decadenza.
Secondo le antiche fonti e per Plinio, l’arte greca raggiunse la perfezione nei secoli V e IV a.C., per poi decadere in età ellenistica, pertanto il termine “classico” mantiene il senso originario: il periodo del V-IV secolo a.C. è classico in quanto perfetto, “sublime”, come dirà Winckelmann, principale teorico del “neoclassicismo” (movimento artistico e culturale del XVIII secolo, che condivise e riprese questa visione dell’arte antica).
Quindi se per rigore consideriamo come classica solo l’arte greca del V e IV secolo a.C., tutte le epoche seguenti non sono epoche classiche, ma classicismi, cioè periodi di imitazione del classico e, quindi, gran parte della produzione ellenistica e quasi tutta la produzione romana sarebbero solo imitazioni. Il Rinascimento, che ha più “ricreato” che imitato le condizioni dell’arte classica, costituisce un caso del tutto eccezionale. L’analisi storica obiettiva, col tempo, ci ha portato a mantenere la definizione di “classico” per il periodo V-IV secolo a.C., ma solamente per comodità, senza alcun giudizio.
Nella cultura greca la creatività espressa, ad esempio, nella letteratura, nella musica e nell’arte, era soggetta al Kànon (canone, regola), una serie di regole ritenute garanzia di perfezione, che erano osservate dall’artista, anche se non rigidamente, dall’altro in seguito furono rifiutate in quanto limitanti. I canoni, quindi, furono quindi continuamente rivisti e corretti, tanto che col tempo di arrivò da forme schematiche a forme naturalistiche. Il passaggio dalla forma schematica e geometrica alla forma realistica, è considerato da alcuni studiosi il più importante momento nella storia dell’arte.
Ma anche su questo “naturalismo” occorre fare molta chiarezza. È vero che gli artisti classici cercavano di riprodurre realisticamente il corpo umano, ma è anche vero che volevano scoprirne, e riprodurne, le proporzioni costanti. Questo è il tratto più tipico delle loro opere: le singole parti del corpo sono perfettamente realistiche, ma la totalità non è quella di una persona, ma la rappresentazione del corpo umano ideale.
Perciò, in architettura come in scultura, il canone stabiliva le proporzioni fra le varie parti dell’insieme affinché l’opera risultasse armonica, cioè perfetta. Una sorta di realismo schematizzato, quindi. L’idealizzazione della realtà dava agli artisti la consapevolezza della durata delle loro opere nel tempo.
Nell’arte greca classica si distinguono due periodi:
Grandeggia, quindi, la personalità di Fidia, celebrato già dagli antichi come il più grande artista di tutti i tempi, la cui opera segna l’apice dell’arte classica. Nelle sculture del Partenone, da lui progettate quando non direttamente eseguite, Fidia sa interpretare i valori politici, etici e religiosi del suo tempo in opere di grande vitalità e suggestione.
Una più attenta osservazione del corpo umano porta a evidenziare meglio i particolari anatomici ed a una maggior resa plastica, il tutto secondo regole proporzionali che Policleto di Argo fissò in un trattato teorico. Pur nella loro importanza queste regole non furono mai applicate in modo rigido, anzi, soprattutto in seguito, si ricercò una maggior naturalezza e l’espressione dei sentimenti, con quest’ultimo aspetto dominante nel IV secolo a.C. e che avrà notevoli sviluppi in età ellenistica.
In questa fase anche la ricerca del movimento prosegue, ma in altri termini: non più la figura in bilanciato equilibrio dinamico sull’asse centrale, ma in posizioni sbilanciate quando non addirittura in accentuata torsione per sottolinearne la drammaticità. È il caso di Skopas, che crea figure fortemente espressive, talvolta drammatiche. Prassitele, suo contemporaneo, inventa sensuali figure di dei e dee.
Questa trasformazione, dimostra un profondo cambiamento della storia greca, e si spiega con la profonda crisi che, nel IV secolo a.C., segna il declino greco a favore della Macedonia, e quindi il declino di Atene. In questa fase domina nella scultura la figura di Lisippo. Egli riprende il canone di Policleto per modificarlo profondamente nei termini di una maggior fluidità e naturalezza, abbandonando la ricerca della forma ideale, a favore del puro realismo. Tale nuova concezione, così come l’attività di ritrattista di Lisippo, creò le base della nascente età ellenistica.
VEDI INOLTRE: Il bello da Voltaire a Winckelmann
Gli architetti furono i primi in Grecia a stabilire regole costruttive, che furono applicate sempre, ma comunque consentendo variazioni per motivi pratici o estetici: si piegavano linee che avrebbero dovuto essere diritte per correggere deformazioni prospettiche; si curvavano lievemente i contorni di piedistalli, cornici, colonne.
Il canone dell’architettura greca classica aveva una base matematica. Per Vitruvio:
“La composizione dipende dalla simmetria, le cui leggi gli architetti dovrebbero rigidamente osservare. La simmetria è creata dalle proporzioni… noi definiamo le proporzioni di un edificio per mezzo di calcoli relativi sia alle sue parti sia al tutto, conformemente a un modello stabilito”.
Considerata insieme al teorema di Pitagora uno dei due tesori della geometria, la sezione aurea, rappresentata dal numero 1,618, è una proporzione matematica tra due diverse lunghezze da sempre considerata quale garante delle bellezza e dell’armonia. Presente in architettura sin dall’epoca delle piramidi egiziane, è addirittura riscontrabile anche in botanica, fisica, zoologia, pittura e musica!
Per creare un rettangolo secondo la regola aurea bisogna moltiplicare il lato minore per 1,618.
Ictino scrisse un trattato sul Partenone, in collaborazione con l’architetto Karpion, che testimonia l’attenzione dei progettisti per ogni aspetto dell’opera. Il capitolo forse più sorprendente di questo trattato riguarda le correzioni ottiche che furono apportate, durante la costruzione, alle varie nervature dell’edificio.
Se da un certo punto di vista Ictino sembra voler semplicemente migliorare un edificio abbastanza tradizionale, in realtà lo trasforma radicalmente, ideando un modello di riferimento in un certo senso eterno. Come il Doriforo di Policleto, e le stesse sculture di Fidia che lo adornavano (ancora esistenti benché disperse nel mondo), il Partenone vive una doppia vita: come edificio reale sull’Acropoli di Atene, e come ideale di riferimento di bellezza architettonica.
Quando si parla di arte classica, si pensa immediatamente all’arte greca dei secoli V e IV a.C.; tuttavia in un’accezione più estesa il termine comprende anche l’arte antica che venne prodotta a Roma, a partire dai secoli immediatamente precedenti la nostra era, fino a tutto il II secolo dopo Cristo. Certo, guardando da vicino le modalità di assunzione dell’arte classica da parte dei romani, si potrebbe pensare alla loro produzione artistica come a una produzione imitativa, più che “realmente” classica. I romani cominciarono infatti a “collezionare” (si fa per dire, perché si trattava nella maggior parte dei casi di bottino catturato in guerra) arte greca, dopo la presa di Corinto, nel 146 a.C.; anche se in qualche modo un linguaggio artistico “greco” o fortemente influenzato dai modi greci era già penetrato in Roma attraverso la vicina Campania e per la mediazione della civiltà etrusca.
In seguito, però, Roma non si limitò ad acquisire arte originale greca o prodotta nei grandi centri ellenistici, ma importò artigiani e cominciò una produzione sia di copie sia di soggetti tipicamente romani attraverso una mediazione formale greco-ellenistica. Il modello del ritratto ellenistico per esempio entra in Roma assai presto, ma è soprattutto sotto Augusto che la scelta di una declinazione classicista riceve in qualche modo una patente di ufficialità.
Già nel corso del I secolo a.C., ad Atene si era manifestata una tendenza retrospettiva che promuoveva modelli artistici ispirati alla prima classicità se non addirittura allo “stile severo”. Augusto sembra conformarsi a questo tipo di gusto, che se per i greci dell’epoca doveva rappresentare la riscoperta della tradizione e dei tempi d’oro della loro civiltà, all’imperatore doveva sembrare lo strumento più adatto a sottolineare l’esistenza di una tradizione romana, semplice di per sé, ma ormai rivestita di una dignità anche formale, che poneva Roma sullo stesso piano di tutte le civiltà più antiche e raffinate che si affacciavano sul Mediterraneo. Si rischierebbe di fraintendere il messaggio augusteo se non si considerasse questo aspetto vagamente nostalgico, che attraverso uno stile virtualmente “morto” recuperava anche costumi e usanze di una Roma antica che rischiava di scomparire. Si vedano in questo, nei monumenti augustei, a partire dall’Ara Pacis, l’attenzione ai rituali cerimoniali, oppure al sacrificio, che viene particolarmente messo in risalto nelle iconografie ufficiali.
Per quanto riguarda il panorama della pittura, Pompei, con le sue mille facce, ci dà un’idea di questo aspetto dell’arte romana, nei suoi vari livelli di qualità. Ma si può pensare anche a un monumento “quasi” ufficiale come la Villa Adriana di Tivoli per renderci conto del gusto romano. Questa residenza imperiale era infatti ornata, si potrebbe dire, da una specie di “antologia” della scultura classica, da Policleto a Fidia, dalle cariatidi dell’Eretteo fino alle più celebri Veneri ellenistiche. Con una particolarità, che farebbe oggi sorridere o inorridire un cultore d’arte: nessuna delle opere esposte nella villa dell’imperatore era un originale, erano tutte copie e imitazioni.
Questo particolare deve far riflettere sul senso che assume l’opera d’arte nell’antichità: oggetto prezioso ed elaborato, ma privo (almeno in una certa misura) di quell’aura magica che rende per noi unico ogni originale e sprovvista di ogni interesse (se non scientifica) qualsiasi copia o imitazione. Evidentemente un raffinato imperatore come Adriano non disdegnava delle buone imitazioni di opere ormai mitiche.
Non è possibile naturalmente ridurre il problema del classicismo in Roma a una mera questione di imitazione. È vero anzi il contrario: la grande arte romana, pur attingendo continuamente da modelli formali greci o ellenistici, li trasforma e li piega alle proprie esigenze, Inventando Infine un suo linguaggio peculiare e facilmente distinguibile da quello greco o ellenistico. Sarebbero altrimenti inspiegabili i grandi monumenti e le grandi realizzazioni dell’arte traianea e antonina, che costituiscono le creazioni originali più tipiche e di più alta qualità del classicismo romano. Si tratta però di un classicismo che sta perdendo il suo sapore greco, per acquistarne uno nuovo, assolutamente romano. In questo senso, è forse con l’arte della cosiddetta “decadenza” che Roma ci lascerà le sue creazioni più originali, distaccandosi dal mondo classico e ponendo le basi culturali del Medioevo ormai prossimo.
Il classicismo romano introduce nel suo orizzonte il senso della storia. Rispetto al mondo greco, che allude alla realtà attraverso il filtro del mito, il mondo romano ricerca un nuovo tipo di rappresentazione realistica. Particolarmente sotto Augusto diventa per esempio popolare, più della rappresentazione mitica, l’immagine del sacrificio, o del culto, attraverso cui vengono ricordate particolari ricorrenze: immagini concrete di come il popolo esprime la propria religiosità. Il culto, più che l’episodio mitico da cui questo deriva, diventa così l’elemento di difesa della tradizione, del costume romano. Anche nel caso di guerre o di vittorie militari, cui i greci facevano allusione ad esempio tramite la rappresentazione dei Giganti che attaccano l’Olimpo, o delle guerre contro Amazzoni o Centauri, i romani accampano realistiche rappresentazioni di combattimenti, giungendo a fare, di certe campagne militari, resoconti esaustivi (si veda tutto il quadro delle guerre in Dacia raccontato dalla Colonna traiana). Queste rappresentazioni di episodi storici mostrano come nel mondo romano mutino le caratteristiche del realismo classico: non solo rappresentazione della natura ideale, ma tentativo di racconto in termini reali.
Link esterno: Il Canone di Policleto (Treccani)